ESEMPI DI GENEALOGIA DISINVOLTA

LA LINEA DI SANGUE DEL SANTO GRAAL

LAURENCE GARDNER, Priore della Celtic Church's Sacred Kindred di St.Columbia, genealogista di famiglie reali e di cavalieri, conosciuto a livello internazionale. Noto come il Cavaliere Labhran di St.Germain, è attaché presidenziale all'European Council of Princes, ente consultivo costituzionale fondato nel 1946. E' formalmente addetto alla nobile guardia della casa reale degli Stewart, fondata a St.Germain-en-laye nel 1692 e storiagrafo reale giacobita.

Nel libro "La linea di sangue del Santo Graal" sono pubblicate le genealogie di discendenza messianica

STIRPE BRITANNICA L'ipotetica genealogia britannica iniziata con l'unione di Giacomo e di Anna e che porterebbe alla Casa Reale degli Stuart
Ipotetica discendenza arturiana secondaria
Anna=Giuseppe di Arimatea (San Giacomo)
Anna=Bran il Beato | Beli | Avallaci | Eugein | Brithguein | Dovun | Onwed | Anguerit | Angouloyb | Gru Dumn | Dumn | Guiocein | Cein | Tegid | Patern Persut | Octern | Cunedda Wledig ca.420 | Einina Yrth ca.460 | Cadwallan Llaw Hir | Maelgwin ca. 542 | Rhun ca 550 | Beli ca.580 | Iago ca.610 | Cadfan Gwynedd ca.620 = Acha, figlia del re Aele di Deira | Cadwallon II° Re di Gwynedd, m.634 = Elena figlia di Wibba | Cadwaladr il Beato Re di Gwynedd ,654 | Edwal Re di Gwynedd 664 ca | Rhodri Molwynog Re di Gwynedd 754 ca | Cinan Tindaethwy 754-816 | Gwynedd | Esylth | Merfyn Vrych, 825-844 | Rodri Mawr di Gwynedd 844-878 (Qui si estingue)
Ipotetica discendenza arturiana primaria. Anna = Giuseppe di Arimatea (S.Giacomo)
Anna = Bran il Beato | Panardun = Mario | Coell I° | Llleifer Mawr | Gladys = Cadwan di Cumbria | Coel II° di Colchester | Cunedd ca. 300 | Cursalen | Fer | Confer di Strathclyde | Gluim | Cinhil | Cynlop | Ceretic Guletic | Cinuit | Dyfnwal Hen | Ingenach = Brychan of Manau | Lluan = Gabran di Scozia ca.548 | Aedan Mac Gabran = Ygerna del Acqs | Artu m.603 = Morgana d'Avallon | Modred La linea s'interrompe con la figlia di Modred. L'ipotetica discendenza non passa dunque da Artù ma da Fredemondo uno degli eredi di Faramondo e Argotta. Dall'altro figlio di questi, Clodione, si sviluppa la linea merovingia. (Vedi dinastia francese)
Discendenza Casa Reale Stewart di Scozia
Fredemondo | Principe Nascine I° | Celedoin | Nascien II° di Septimania | Galains | Jonaans | Lancelot | Bors = Viviane II° del Acqs | Bors | Lionel | Alain | Froamido Conte di Bretagna | Frodaldo Conte di Bretagna ca 795 | Froumundo m.850 | Flothario | Adelrado | Froubaldo m.923 | Alirado | Froumundo ca.985 | Fretaldo ca.1008 | Donada = Finlaech Mormaer di Moray m.1057 | Macbeth | Alan Steward 1050-1097 ca | Emma ca 1070 = Walter Tahne di Lochaber | Alan di Lochaber 1088 - 1153 ca = Adelina di Uswetry | Walter Fitz Alan I° High Steward di Scozia m.1177 = Eschyne de Molle | Alan Fitz Walter II° High Steward m.1204 = Eve di Crawford | Walter Stewart II° High Steward = Beatrix di Angus | Alexander Stewart IV° High Steward m.1283 | Sir James Stewart V° High Steward m.1309 = Jill du Bourg di Ulster | Sir Walter Stewart VI° High Steward m.1326 = Marjorie Bruce | Re Roberto II° VIII° High Steward 1371-1390 = Elizabeth Mure di Rowallan | Roberto III° John Stewart Conte di Carrick 1390 - 1406 = Annabella Drummond | Giacomo I° 1406-1437 | Giacomo II° 1437-1460 = Mary de Gueldres | Giacomo III° 1460-1488 = Margaret di Danimarca | Giacomo VI° 1488-1513 = Margaret Tudor figlia di Enrico VII° | Giacomo V° 1513-1542 = Mary de Guise Lorraine | Maria Stuart Regina di Scozia 1542-1567 = Henry Stewart, Lord Danley | Giacomo di Scozia I° d'Inghilterra 1603 - 1625 = Anne di Danimarca e Norvegia | Carlo I° Stuart di Gran Bretagna 1625 - 1649 = Enrichetta Maria | Giacomo VII° di Scozia II° d'Inghilterra 1685 - 1688 = Maria Beatrice D'Este | Giacomo Francesco Edoardo Stuart III° d'Inghilterra m.1766= Maria Clementina Sobieska | Carlo Edoardo Luigi Filippo Casimiro Stuart m.1788 = Margherite O'Dea D'Audibert | Principe Edoardo Giacomo Stuart Conte Stuarton m.1845 = Maria Emmanuela Pasquini di Vaglio | Principe Enrico Edoardo Benedetto Stuart m.1869 = Agnes Beariz de Pescara Barberini-Colonna da Palestrina | Principe Carlo Benedetto Giacomo Stuart m.1887 = Louise Jeanne Francois Dalvray de Valois | Principe Giulio Antonio Enrico Stuart m.1941 = Maria Joanna Vandenbosch di Fiandra | Giulio Giuseppe Giacomo Stewart di Annandale 1906-1985. ---------------E' indicata la linea principale ereditaria degli Stuart. Lungo questa genealogia (dai documenti genealogici della Royal House of Stewart) la discendenza merovingia passa attraverso Re Macbeth, Re di Scozia (1040-1057) ucciso da Malcolm, figlio di Duncan per far nascere intorno al 1150 la Casa Reale di Stewart. Tra i sovrani più famosi della dinastia, re Giacomo VI°, Mary Stuart, (in questo periodo si adotta il francesismo Stuart da Stewart) Carlo I°. La famiglia perde il trono di Gran Bretagna in modo definitivo nel 1688 con Giacomo VII°. I successivi eredi si sposarono con nobili di Case occidentali: polacche, italiane, francesi, belghe. La Casa Stewart sembra estinguersi con Giulio Giuseppe Giacomo Stewart di Annandale, morto nel 1985 che non lascia eredi maschi. Ma il giovane conte Micheal La Fosse (nato a Bruxelles nel 1958), figlio di Renee Julienne Stewart (n.1934, figlia di Giulio Giuseppe Giacomo) e di Gustave La Fosse (n.1935) conte de Blois, nel 1976 viene accolto in Scozia dove gli vengono conferiti i titoli reali di Principe Michele Giacomo Alessandro Stewart. Nel 1996 ha pubblicato il libro "Scozia, La monarchia perduta" nel tentativo di ricostituire la successione dinastica. Anche la linea genealogica degli Stewart si sviluppa sulla casa Merovingia, da Fredemondo, secondo figlio di Faramondo e Argotta. Non vi sono invece collegamenti diretti e attendibili dalla discendenza da Artu. Lo stesso matrimonio tra Anna e Bran il Beato, da cui discenderebbe Artu, sarebbe avvenuto tra Anna e un uomo ritenuto il primo a portare la cristianità nelle isole britanniche: un marito ideale da associare alla figura di origine cristiana di Anna. Si può quindi affermare che il "Sangreal" non ha origini dai tempi di Gesù ma dalla dinastia Merovingia, fondata da Meroveo nel 456 d.C.

la Famiglia Allargata di Gesu'------------------- La Ricerca del Santo Graal -------------------- Enigma Gesu'-Le Fonti Dissepolte

Non è difficile immaginare che Enrico VIII, nella foga di palesare una propria discendenza da David, Gesù, Elena e Costantino, per sganciarsi dal cristianesimo cattolico romano, abbia voluto dare una impronta tutta inglese alla nuova Chiesa Anglicana ignorando totalmente altre fonti storiche. (Esempio: Elena, principessa inglese discendente di Caractaco - fonti storiche dichiarano all'unanimità che Elena fosse nata in Bitinia, nulla di più lontano dall'Inghilterra.). "Flavia Iulia Helena, nata in Bitinia intorno al 250 d.C., era una donna di umili origini. Concubina di Costanzo Cloro (prima moglie secondo alcune fonti, ripudiata in un secondo tempo, secondo altre) da cui ebbe Costantino, venne proclamata Augusta dopo il 324 ed ebbe grande influenza sulla politica religiosa del figlio."

BITINIA

Tratto da Wikipedia: "Diverse antiche città della regione si trovavano lungo le fertili coste della Propontide (ora nota come Mar di Marmara): Nicomedia, Calcedonia, Cio ed Apamea. La Bitinia comprendeva anche Nicea, famosa perché vi si tenne il primo concilio di Nicea e perché vi fu formulato il credo niceno-costantinopolitano". "Di Elena i dati biografici sono scarsi, nacque verso la metà del III secolo forse a Drepamim in Bitinia, cittadina a cui fu dato il nome di Elenopoli da parte di Costantino, in onore della madre. Elena discendeva da umile famiglia e secondo s. Ambrogio, esercitava l’ufficio di ‘stabularia’ cioè locandiera con stalla per gli animali e qui conobbe Costanzo Cloro ufficiale romano, che la sposò nonostante lei fosse di grado sociale inferiore, diventando così moglie ‘morganatica’." A mio parere Costantino non avrebbe avuto motivi per nascondere le origini materne.

STIRPE FRANCESE La teoria sulla Dinastia che porterebbe fino ai Merovingi e ai Conti di Razès.
Nel 1982 uscì 'Holy Blood, Holy Graal', il libro di Micheal Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, tre famosi giornalisti della Bbc, che realizzarono un dossier sui movimenti eretici medievali, sulla stirpe carolingia, sulla vita di Gesù e sui libri testamentari. I tre autori, credendo autentici alcuni documenti che gli vennero forniti, ricostruirono la suggestiva storia della prosecuzione dinastica di Gesù. Successivamente al 1982 sono usciti centinaia di libri, alcuni decisi a contestare decisamente la tesi della prosecuzione dinastica, altri invece a rafforzare le ricerche sulla vita di Cristo attraverso due generi: lo studio sui papiri di Qumran e sul Vangelo Apocrifo di Filippo, un filone più narrativo e suggestivo, in cui i temi e le implicazioni sono i Catari, i Templari, l'Ordre de Sion e Rennes-le-Chateau. Ma tutte queste pubblicazioni, ognuna che cerca di trovare una nuova teoria, non fanno che confondere, non ci indicano la direzione giusta. Attualmente la difficoltà è così il saper distinguere tra l'editoria esoterico-popolare, con le sue pubblicazioni sui Templari e su Rennes-le-Chateau e sui testi che riportano invece una ricostruzione storica. Molte teorie che sono state elaborate sulla successione messianica e sui movimenti medioevali sono chiaramente suggestive ma non verificabili. La storia e i libri testamentari ci aiutano invece a dare delle interpretazioni e delle certezze per ricostruire un quadro generale della 'Queste du Graal' e comprendere cosa c'è di vero. Secondo la letteratura britannica accettata, l'attuale erede della Casa Reale di Stewart è il principe Albrecht di Baviera che avrebbe diritto ai titoli scozzesi in virtù delle ultime volontà testamentarie del fratello minore di Carlo Edoardo, il cardinale Enrico, duca di York. Questo testamento presumibilmente nominava Carlo Emanuele IV di Sardegna a successore degli Stuart. Attraverso vari matrimoni con discendenti femminili del fratello di Carlo Emanuele, Vittorio Emanuele I°, l'attuale Albrecht di Baviera è diventato l'erede comunemente citato, basandosi su una discendenza piuttosto tenue da Enrichetta, figlia di Carlo I°. Ma il fatto è che il testamento del cardinale Enrico Stuart non nominava Carlo Emanuele suo successore. Dal momento in cui l'Elettore di Hannover salì al trono come Giorgio I° di Gran Bretagna nel 1714, divenne politicamente conveniente sopprimere o nascondere una buona quantità d'informazioni su certe famiglie, valorizzando al tempo stesso il lignaggio di altre. La Casa di Stuart fu attaccata in modo particolare per giustificare la nuova linea di successione germanica. Carlo Edoardo Stuart sposò nel 1772 la principessa Luisa Massimiliana, figlia di Gustavo, principe di Stolberg-Guedern. Nel 1784, tuttavia, ottenne la dispensa papale per il divorzio in seguito alla relazione amorosa di Luisa con il poeta italiano Vittorio Alfieri. Gli archivi degli Stuart a Roma rivelano che nel novembre 1785 Carlo si risposò con la contessa De Massillan nella chiesa dei Santi Apostoli a Roma. Era Margherita Maria Teresa O'Dea d'Audibert de Lussan: cugina per discendenza del prozio di Carlo, il re Carlo II°. Nel novembre 1786, a trentasette anni, la contessa diede alla luce un figlio, Edoardo Giacomo Stuart, che divenne noto come il conte Stuarton. Sebbene non fosse un segreto in Europa, la notizia della nascita del legittimo figlio ed erede di Carlo Edoardo venne immediatamente soppressa dal governo degli Hannover a Westminster (Londra). Nel 1784 Carlo Edoardo aveva fatto testamento nominando suo erede il proprio fratello, cardinale Enrico, duca di York. Carlotta di Albany (1754), nata dall'unione di Carlo nella relazione con Clementina Walkinshaw, sarebbe dovuta essere la sola beneficiaria del patrimonio. Ma il testamento del padre venne annullato da un altro fatto redigere prima della sua morte. Al fine di consolidare la posizione del nuovo re, Giorgio III°, il parlamento georgiano nascose l'esistenza del testamento originario e pose fine al problema della popolarità degli Stuart in Gran Bretagna dichiarando estinto il ramo scozzese, che aveva tra l'altro contribuito alla scissione degli Stati Uniti durante la Guerra d'Indipendenza. Molti scozzesi esiliarono in Nord America. Qui si voleva creare un'alternativa alla monarchia e alla dittatura: un sistema repubblicano per liberare soprattutto la nazione inglese dal dispotismo della Casa di Hannover che regnava in Gran Bretagna. L'idea era un sistema repubblicano fondato sul principio della fratellanza, tuttavia una società ideale aclassista non può esistere in un ambiente, come quello inglese, che promuoveva l'ostentazione di eminenza e superiorità in base alla ricchezza e al possesso. In massima parte, i responsabili della Costituzione degli Stati Uniti e della sua ispirazione morale erano rosacrociani e framassoni: personaggi illustri come George Washington, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, John Adams e Charles Thompson. Quest'ultimo, che disegnò il Gran Sigillo degli Stati Uniti d'America, era appartenente all'"American Philosophical Society" di Franklin, l'equivalente del "Collegio Invisibile" della Gran Bretagna. Le figurazioni del sigillo sono direttamente legate alla tradizione alchimistica: l'aquila, il ramo di olivo, le frecce e i pentagrammi sono tutti simboli segreti di contrari: il bene e il male, maschi e femmina, guerra e pace, buio e luce. Sul verso (ripetuto sulla banconota americana) è raffigurata la piramide tronca, indicante la perdita dell'Antica Sapienza, recisa e costretta alla clandestinità. Ma sopra di essa vi sono i raggi di luce dell'eterna speranza, che avvolgono l'"occhio onniveggente", usato come simbolo durante la Rivoluzione Francese. La Costituzione Americana traccia un cammino ideale verso una forma di democrazia dove il governo del popolo è per il popolo, ignorando le distinzioni di classe, dove i ministri del Governo venissero eletti con la maggioranza dei voti popolari, ma che loro azioni fossero contenute entro i limiti della Costituzione. Poiché la Costituzione appartiene al popolo, il suo difensore (secondo l'idea di Gorge Washington) dovrebbe essere un monarca legato da un impegno verso il popolo e non verso la politica o la religione. Attraverso il naturale sistema ereditario (essere nato ed educato per quel compito), ogni successore assicurerebbe coerenza e una "ininterrotta continuità" di rappresentanza attraverso i successivi governi. A questo riguardo tanto i monarchi quanto i ministri sarebbero i servitori della Costituzione per conto della Comunità del Regno. Tale concetto di governo morale sta proprio al centro del Codice del Graal e rientra nelle possibilità di ogni Stato nazionale civilizzato, dove nessun ministro può pretendere di diffondere onestamente un ideale di uguaglianza nella società quando lo stesso possieda qualche forma di predominio nella società in cui opera. Il precetto del Sangreal va quindi inteso nella capacità di saper vivere per gli altri senza sentirsi umiliati: è l'educazione dell'uguaglianza e del servizio principesco, un eterno precetto che può creare maggiore armonia e unità.

LUOGO DI NASCITA DI CRISTOFORO COLOMBO

TRATTO DAL LIBRO "LA VERA STORIA DI CRISTOFORO COLOMBO" DEL FIGLIO FERNANDO COLOMBO

Fratelli Melita editori

Da qualche anno la questione della patria di Colombo ritorna periodicamente all'onore della discussione internazionale con ipotesi ed affermazioni impreviste e meravigliose. Esse debbono essere giudicate con severità, perché appaiono frutto di una profonda ignoranza o di insigne malafede. La tradizione designava Colombo come ligure e italiano sia che lo dicesse nato a Genova o a Savona, a Cogoleto o a Nervi, a Quinto o a Bogliasco, egli risultava sempre ligure; e se l'orgoglio municipale lo pretendeva anche nato nel piacentino, in Lombardia o nel Castello di Cuccaro nel Monferrato, egli era pur sempre considerato un italiano. Traendo pretesto da queste contese campanilistiche nostrane, gli stranieri intervennero nella discussione e, un pò alla volta, diedero origine a diverse tesi, per cui Colombo appare ora greco e ora inglese, ora francese, portoghese, spagnolo, catalano, corso, svizzero, etc. La Spagna non si accontenta di un solo Colombo spagnolo e ne possiede diversi, il Colombo gallego, quello estremeno, quello catalano... ogni giorno in Spagna fabbricano un Colombo nuovo. (curiosità: nel libro Fernando riporta che, per il clima malsano di Genova, la madre, scelse di partorire Cristoforo a Bettole, luogo d'origine della sua famiglia, assai più ameno).

L'ORIGINE (IMPROVVISATA) DEI COGNOMI: QUATTROCCHI

Sembrerebbe tipicamente siciliano anche se presenta un grosso nucleo, probabilmente non secondario, in provincia di Roma, dovrebbe derivare da soprannomi originati dal fatto che il capostipite portasse gli occhiali. Si deve ricordare, con questo cognome, Fabrizio Quattrocchi, Medaglia d’ Oro alla memoria al Valor Civile, massacrato dai terroristi islamici, che, prima di essere ucciso, pronunciò la fatidica frase: "vi faccio vedere come muore un italiano". (nota: è difficile immaginare che ai tempi remoti a cui risalgono i documenti della Necropoli Quattrocchi di Enna del VI sec. A.C. ed ai documenti del tribuno Paulus de Quatuor Oculi (forse in epoca romana), qualcuno portasse gli occhiali!)

 

PIETRO CAVALLINI Artefice del Rinnovamento Romano della Tradizione Pittorica

Ricordato dal Vasari tra gli allievi di Giotto per mere ragioni campanilistiche (che volevano sostenere la superiorità della scuola toscana su quella romana), Cavallini pittore appartiene in realtà alla generazione precedente a quella del maestro fiorentino. Poche sono le notizie biografiche che lo riguardano, e anche quelle poche sono contraddittorie, fondate per lo più sulle testimonianze lasciate dal Ghiberti nei suoi Commentari. Nato a Roma intorno al 1240, Pietro apparteneva forse alla nobile famiglia dei Cerroni (residente nel rione Monti, nell'area di S. Pietro in Vincoli): ma questo dato è stato dedotto unicamente da un atto di compravendita del 2 ottobre del 1273 - ora nell'Archivio Liberiano di S. Maria Maggiore (Orig. Pergamena D, II, 48) - in cui è ricordato un Petrus dictus Cavallinus de Cerrònibus, che compare come testimone e nel quale si è voluto identificare il pittore romano, riconoscendo in Cavallinus una sorta di soprannome. Lavorò a Roma, nel Regno di Napoli e forse in Umbria. Non abbiamo dati certi riguardo alla sua morte, che presumibilmente avvenne dopo il 1325.
Stefania Falasca, Intervista Bruno Zanardi .!!!
Nel cantiere medioevale i nomi non contavano I documenti mostrano che nella realizzazione di un ciclo pittorico lavoravano parecchi artisti, sotto la guida del capobottega. Bruno Zanardi ci riporta nella Roma della fine del 1200.
Sei anni fa, nel 1994, veniva portata a termine la scoperta degli affreschi del Sancta Sanctorum a Roma. Una scoperta eccezionale per la pittura italiana del Duecento destinata ad avere forti ripercussioni nella comprensione della storia dell’arte di quel periodo. A quell’importante restauro aveva lavorato Bruno Zanardi. Appena due anni più tardi, con la cura di Federico Zeri, Zanardi diede alle stampe un volume che segnò una svolta storica proprio nella comprensione dell’origine di tutta la pittura moderna occidentale: Il cantiere di Giotto. Un’analisi dettagliata delle Storie di san Francesco ad Assisi che mostra come questi affreschi videro poco, anzi nulla, la mano di Giotto, e che apre così un nuovo filone di ricerca il cui baricentro è significativamente diverso. Roma, appunto. A Bruno Zanardi abbiamo chiesto di commentare la nuova scoperta dell’Aracoeli. Allora, professore, una nuova scoperta di affreschi tardo duecenteschi a Roma. Cosa ne pensa?
BRUNO ZANARDI: È davvero troppo presto per trarre conclusioni da questi pochi frammenti di pittura, ma alcune osservazioni Possono essere fatte: innanzitutto bisogna dire che si tratta di una scoperta di estrema importanza sia perché ritrovamenti di cicli di affreschi di quest’epoca a Roma sono eventi rarissimi, sia perché riportano al centro dell’attenzione critica il problema di Roma, cioè di quella grande stagione pittorica che si è espressa a Roma alla fine del Duecento e che è stata sottovalutata.
Lei ha avuto modo di vedere questi affreschi?
ZANARDI: Sì. Posso dire che la qualità pittorica è in alcune parti altissima, molto simile a quella degli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastèvere. Ci sono anche strettiSSime convergenze, dal punto di vista formale, con il ciclo Assisiate, tanto che alcune parti decorative e spaziali, come ad esempio la torre scorciata nella parete laterale sinistra, sono addirittura assolutamente identiche. Questa stessa torre si ritrova infatti citata nella Volta dei Dottori nella Basilica Superiore di Assisi.
È possibile quindi che gli affreschi dell’Aracoeli siano antecedenti quelli di Assisi?
ZANARDI: Guardi, a parte il fatto che fare un discorso di datazione adesso è assolutamente prematuro inoltre reperire documenti medioevali a riguardo è difficilissimo. Un caso eccezionale è stata la datazione sicura degli affreschi del Sancta Sanctorum perché a commissionarli è stato il papa Niccolò III, pontefice dal 1277 al 1280. La questione non ha comunque importanza, perché a mio parere il punto è un altro. Il punto è che si tratta di cantieri che parlano un linguaggio simile, per quanto si può vedere nei risultati formali; anzi, a mio avviso potrebbe trattarsi dello stesso cantiere, lo stesso cantiere che ha operato sia a Roma, nella chiesa francescana all’Aracoeli, sia ad Assisi, nella Basilica francescana, con alcune maestranze differenti.
Può spiegare meglio?
ZANARDI: Voglio dire che, per affrontare correttamente lo studio di questi affreschi, si deve ragionare in termini di cantieri, perché nel Medioevo, si ragionava in questi termini. Nel cantiere medioevale, i nomi non contavano. E i documenti medioevali, (e non solo) ci dimostrano che, i pittori al lavoro nei cantieri erano sempre moltissimi. È chiaro che c’era un capobottega, ma questi lavorava di volta in volta con persone diverse, e dipendeva a sua volta, dagli architetti. E gli architetti, proprio perché lavoravano su ciò che era più costoso, rischioso e difficile, vale a dire la costruzione o il riadattamento delle cattedrali, erano anche quelli, che organizzavano il lavoro dei pittori, e degli scultori. Nel caso dell’Aracoeli non si può, ad esempio, non prendere in considerazione la figura di Arnolfo di Cambio, capocantiere per eccellenza,della Roma e della Firenze di fine Duecento, visto che, egli guida tutte le più importanti imprese di architettura condotte in quegli anni, in queste due città, e quindi probabilmente, anche quelle relative, alla chiesa dell’Aracoeli. È una realtà complessa, che tuttavia, può essere affrontata ragionevolmente, solo in questi termini, altrimenti, si fa una storia dell’arte, dei nomi, una visione evoluzionistica dell’arte, quella, in sostanza, ereditata dal Vasari, e che in troppi ancora continuano a fare. Se, è lo stesso cantiere, ad operare nelle due chiese francescane, di Assisi, e Roma, come lei dice, potrebbe essere, un’ulteriore conferma, che il ciclo degli affreschi delle Storie di san Francesco, non sia di Giotto .
ZANARDI: Senta, non voglio riprendere ora, una disputa secolare, sul problema Giotto o non Giotto, ad Assisi, di difficile risoluzione, con implicazioni di argomenti insormontabili. Tuttavia, analizzando da vicino, la tecnica pittorica di quegli affreschi, e i modelli ,utilizzati per la realizzazione delle figure, si può vedere, l’opera di almeno tre diversi maestri, tre diversi pittori. Se da un lato, si Possono vedere, cantieri che parlano una lingua simile, tra Roma, e Assisi,dall’altro cantieri che parlano una lingua altrettanto simile in quel periodo a Firenze, non ce ne sono. Dunque, il problema delle Storie di san Francesco, è infinitamente più ragionevole pensarlo, in un ambito romano, che non in un ambito fiorentino, e giottesco, perché è ridicolo pensare, che una basilica di commissione romana, papale, affrescata nell’ultimo decennio del Duecento, possa essere dominata, da figure fiorentine. La cultura figurativa fiorentina, toscana, degli anni Ottanta del Duecento, è sostanzialmente, bizantineggiante; di gran qualità, ma arcaica. Il suo massimo livello, si esprime in Cimabue, e Giotto, come è noto, si è formato in questo ambiente. E, non poteva ancora il giovane Giotto, in quegli anni, aver maturato una sua lingua figurativa, tale da poter inchiodare a se stesso, tutti quelli, che gli giravano intorno. È la storiografia dei nomi, nella visione toscanocentrica imposta dal Vasari, sulle origini dell’arte moderna in Italia, ad insistere sulle Storie di san Francesco come opera, esclusiva di Giotto: una sopravvalutazione, che ha portato a delle conseguenze ridicole.
Quali ad esempio?
ZANARDI: Come è noto e riconosciuto da tutti gli studiosi, ad esempio, ci sono delle differenze enormi tra gli affreschi delle Storie di san Francesco e quelli della Cappella degli Scrovegni a Padova (di cui ora si sta curando una mostra), questi ultimi unanimemente attribuiti a Giotto; e ci sono delle differenze enormi soprattutto con gli affreschi delle cappelle della Maddalena e di San Nicola nella Basilica Inferiore di Assisi. Gli storici dell’arte per affermare con insistenza che la leggenda francescana è opera di Giotto hanno dovuto dire che i grandi capolavori delle cappelle della Maddalena e di San Nicola non sono dell’artista (tutt’al più della sua bottega), fino a quando, recentemente, è stato ritrovato un documento del 1309 che attesta inequivocabilmente che quelli sono opera di Giotto. Ma il fatto paradossale di questa vicenda storiografica è che poi Giotto è veramente un genio, è lui veramente il genio della nuova lingua dell’arte occidentale, quello che si manifesta in tutta la sua straordinarietà nella Cappella degli Scrovegni, e nei capolavori delle due cappelle, nella Basilica Inferiore di Assisi. Ma non è quello delle Storie di san Francesco, che restano, rispetto a questi capolavori eccelsi, ancora rozze. Allora, tornando a quanto dicevamo della Firenze di quel periodo, se l’arte toscana di quegli anni era ancora sostanzialmente bizantineggiante, a Roma non era così. A Roma, in quegli anni, c’erano degli artisti che dipingevano con un’abilità altissima ed erano innovativi dal punto di vista del verismo e del naturalismo. E certo è che il giovane e talentuosissimo Giotto, venendo a Roma sul finire del secolo, ha visto queste opere straordinarie, che erano davvero un’altra cosa, rispetto a quelle della sua Firenze, rispetto, a Cimabue, e ha visto come lavoravano questi pittori, con i quali non poteva non confrontarsi.
Chi erano questi Artisti Romani ???
ZANARDI: Si conoscono solo alcuni tra i tanti: Pietro Cavallini, Filippo Rusuti, Jacopo Torriti. Il fatto che se ne conoscano pochi è dovuto alla ragione che dicevo prima, cioè che i nomi nei cantieri a quell’epoca non interessavano e, in altra misura, alla sfortunata penuria di opere e notizie documentarie conservatesi, ma certo anche al citato ferreo mito toscanocentrico. Di Pietro Cavallini, ad esempio, sappiamo, come scrive Lorenzo Ghiberti, «che fu in Roma maestro dottissimo in fra tutti gli altri maestri». Vasari ci dà qualche notizia riguardo alla sua vita, dicendo che è vissuto a lungo e che era «divotissimo e amicissimo de’ poveri». Sappiamo che Cavallini a Roma ha fatto grandi opere in molte chiese importanti: a San Pietro, a Santa Maria in Trastèvere, a Santa Cecilia, nella chiesa di San Francesco a Ripa, a San Crisògono, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, all’Aracoeli. Si tratta di decine e decine di metri quadri di mosaici ed affreschi. E quel poco che purtroppo oggi si può vedere di questo grande pittore (come, ad esempio, l’affresco del Giudizio universale nella Basilica di Santa Cecilia in Trastèvere, datato 1292-93), è di un realismo impressionante.Le sue figure di una grandezza straordinaria non sono più Icone, hanno la presenza plastica delle opere anticoromane. Ma già negli affreschi del Sancta Sanctòrum che risalgono, rispetto a questa opera del Cavallini, a più di dieci anni prima, si Possono vedere elementi di innovazione, elementi realistici, di verismo, saggi di prospettiva e tentativi di caratterizzazione dei volti. Dunque il Realismo nasce a Roma !!! ZANARDI: Il dato di fatto, è che nell’arco di un trentennio, a Roma si rifanno le decorazioni di quasi tutte le chiese,e di tutte e quattro le basiliche patriarcali, cioè delle chiese più importanti della cristianità. E si rifanno in questo modo. Ma se è vero che il nuovo linguaggio nell’arte si preannuncia a Roma, quali Possono essere le ragioni ??? ZANARDI: Il dòminus della vicenda credo vada ricercato nella presenza dell’arte anticoromana e tardoromana. Bisogna pensare che cosa era Roma in quello scorcio di secolo, colma di statue antiche, di tombe di epoca classica scoperchiate con dentro dipinti di un verismo assoluto, di un’abilità prospettica assoluta, pitture eseguite con una perfezione formale assoluta come solo la civiltà classica ha raggiunto; e poi c’è la presenza massiccia dell’arte paleocristiana, i mosaici, gli affreschi delle catacombe. Una fonte inesauribile di confronto, un’abilità e un virtuosismo tecnico con cui questi artisti si sono misurati. Tuttavia il fatto dell’introduzione di questi elementi nelle raffigurazioni si intreccia con quello della committenza. Ad un certo punto si comincia a richiedere di cambiare il repertorio delle immagini. Si chiede ai pittori di non fare più delle raffigurazioni simboliche come erano quelle della cultura bizantina. E si deve pensare che i committenti spendevano somme enormi. Il rifacimento di Jacopo Torriti dell’àbside di San Giovanni in Laterano, ad esempio, viene pagato la bellezza di duemila fiorini d’oro. Se dunque un’opera veniva pagata tanto, doveva rispettare quel valore nella resa formale. I mosaici costavano una fortuna, e nella maggior parte dei casi le decorazioni erano eseguite in mosaico. A Roma insomma c’erano i soldi, e il mercato, come si dice, aguzza l’ingegno. Federico Zeri diceva che questa grande rivoluzione è maturata a Roma, perché era logico che un cambiamento del genere avvenisse in quella che era la capitale del mondo cristiano; ed aggiungeva che le probabili ragioni di questo ritorno alla tridimensionalità, ai dati empirici, fisici, alla cura degli aspetti corporali, siano da identificare nella terribile minaccia rappresentata da certe eresie gnostiche che in quegli anni stavano prendendo piede in Italia. ZANARDI: Può darsi che Zeri avesse ragione nel dire che il passaggio dalla pittura medioevale a quella moderna potrebbe essere legato in qualche modo al tentativo della Chiesa di opporsi alle dottrine gnostiche; è uno dei possibili fattori che potrebbero spiegare perché gli artisti vengono chiamati a cambiare il repertorio delle immagini. Bisogna poi ricordare che l’intero rifacimento delle decorazioni nelle chiese romane si svolge alla vigilia del primo Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII. Tuttavia i grandi cambiamenti non avvengono per andare contro. E questi mutamenti potevano non avvenire a Roma. Non è detto che tutto ciò doveva per forza accadere a Roma. Benedetto Antèlami, per esempio, all’inizio del 1200, quindi quasi un secolo prima del periodo in questione, fa a Parma delle sculture di un realismo straordinario copiando opere tardoromane di provincia. Dunque, restiamo semplicemente al dato e prendiamo finalmente in considerazione, anche alla luce di questo nuovo ritrovamento nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli, quello che è successo qui a Roma in quegli anni, in quegli ultimi anni del Duecento. (1 novembre 2000).

"L’Aracoeli dei Pittori Romani". Il ritrovamento di un eccezionale affresco nella chiesa, che fu per secoli il cuore della vita cittadina di Roma, ha riacceso un antico dibattito. Dove iniziò la rivoluzione pittorica avvenuta a cavallo tra il XIII e il XIV secolo in Occidente? Diceva Roland Barthes che davanti alle opere d’arte, quelle vere, l’unica cosa che puoi dire è che sono belle. E aggiungeva che le parole, anche i concetti più articolati e profondi, risultano sempre delle approssimazioni. Non gli si può dare torto. Basta vedere certe immagini di Giotto. La scena della Natività nella Cappella degli Scrovegni a Padova ad esempio, il particolare della nascita di Gesù. Come si può spiegare quell’intensità nei gesti, quello sguardo una tenerezza struggente Si tratta di un capolavoro. Proprio come quello che sta venendo alla luce in una delle più note chiese romane: "Santa Maria in Aracoeli", in Campidoglio.
Qui, in questa splendida chiesa francescana, per secoli cuore della vita cittadina di Roma, in quella che sembrava la cappella più modesta, dedicata a san Pasquale Baylon, e che fino a ieri era dominata dal dipinto di un pittore spagnolo della seconda metà del Seicento, è stato ritrovato un affresco della fine del Duecento. Una Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista che rifulgono ancora per l’oro purissimo che fu steso sulle aurèole rialzate delle sacre figure. Più in là una figura di Cristo accompagnato da angeli e da san Pietro, ed ancora dei festoni sorretti da putti alati, la torre di una città perfettamente scorciata, di colore rosso, del tutto analoga ad una presente nella Basilica Superiore di Assisi. Sono solo frammenti, appena un quindicesimo del totale, di un grande affresco che ricopre interamente le pareti della cappella e che è ancora nascosto sotto le ridipinture e gli stucchi. Ma questi primi Frammenti, giunti a noi in condizioni quasi perfette, già bastano a far ritenere che si tratta di un’opera eccelsa del nostro Medioevo. La scoperta è recente. Il giovane studioso, esperto di pittura romana del Duecento, cui va il merito di questo importante ritrovamento, è Tommaso Strinati, figlio di Claudio Strinati, soprintendente ai Beni storici e artistici di Roma. All’inizio di aprile, Strinati, coadiuvato da Claudia Tempesta, responsabile dei restauri alla chiesa dell’Aracoeli, e da Marina Righetti, direttrice della scuola di specializzazione in Storia dell’arte medioevale e moderna dell’Università La Sapienza di Roma, ha iniziato ad investigare su alcune cappelle della navata destra dell’Aracoeli,e sul transetto dove è attestato che lavorò un grande pittore romano di fine Duecento, Pietro Cavallini, del cui lavoro sono rimaste poche tracce, e di cui è andato completamente distrutto l’affresco absidale demolito nel Cinquecento. Gli studiosi si sono soffermati sull’ultima cappella della navata destra dove si ritiene possibile un intervento di Arnolfo di Cambio e dove trent’anni fa erano già stati fatti dei saggi di restauro. Quei saggi rilevarono la presenza di una decorazione in affresco di epoca medioevale, ma i lavori non furono proseguiti. Alla fine dello scorso luglio la scoperta, dietro la tela d’altare, della Madonna col Bambino. Strinati, seppure con grandiSSima cautela, ha già espresso delle ipotesi a riguardo. «Il soggetto mariano che lascia supporre un ciclo di affreschi dedicato alla Madonna» afferma, «credo rappresenti una dormitio Virginis. La tecnica pittorica, la tessitura cromatica con la quale è eseguito l’affresco, mi riferisco soprattutto al volto del Bambino, caratterizzato da una fortissima presenza plastica, fa ritenere possibile la mano di un pittore di strettissimo ambito romano, cavalliniano forse, per le forti analogie sia con le figure dipinte da Pietro Cavallini nella Basilica di Santa Cecilia in Trastèvere, sia con il grande anonimo detto il Maestro d’Isacco nella Basilica Superiore di Assisi; e ritengo non azzardata, anche se prematura, una datazione agli inizi del 1290». «Le pitture», aggiunge inoltre, «per la loro ricchezza, lasciano supporre un patronato gentilizio, ad esempio dei Colonna. Ci vorranno tuttavia alcuni anni prima di riportare alla luce l’intera decorazione e quindi formulare plausibili risposte». Ma se i lavori sono appena cominciati, la discussione è già aperta. Con tutti i dibattiti e le polemiche del caso. L’8 novembre si sono riuniti all’Aracoeli gli esperti in occasione della presentazione ufficiale del ritrovamento presieduta dal ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri. Già, perché queste prime tracce riemerse dal nero scatolone del tempo mostrando strette analogie con le Storie di san Francesco ad Assisi, vanno a toccare un campo minato, il vero casus belli per eccellenza della storia dell’arte. Da circa un secolo, infatti, due fazioni, la scuola di pensiero toscana e quella romana, si combattono sostenendo, una, che il suo autore è Giotto e quindi che la nuova lingua dell’arte italiana nasce a Firenze, l’altra, che il suo autore è un pittore romano, e quindi quella stessa nuova lingua nasce a Roma a partire dal grande anonimo detto il Maestro d’Isacco, dalle scene di quel suo soggetto che restano nella Basilica Superiore di Assisi. Casus belli che proprio in questi ultimi anni, dopo la scoperta a Roma degli affreschi del Sancta Sanctorum con le tesi avanzate dalla storica dell’arte Angiola Maria Romanini e soprattutto dopo gli ultimi studi compiuti da Bruno Zanardi e Federico Zeri sulle Storie di san Francesco ad Assisi, ha visto riaccendersi la battaglia. Ma non si tratta solo di dispute specialistiche. Non si tratta solo di andare ad aggiungere un nuovo capitolo alla storia dell’arte, bensì di scompaginare totalmente tutta una visione, una lettura che da secoli, a partire dal Vasari, vede in Giotto il primo indiscusso inventore del nuovo moderno linguaggio della pittura occidentale, il faro isolato della rinascita italiana. Se sarà dunque accreditata la datazione antecedente agli affreschi delle Storie di San Francesco ad Assisi, e se vi sarà riconosciuta la mano di un pittore romano come Pietro Cavallini, il primato di Giotto non sarà più tale. E non sarà Firenze ma Roma a detenere questo primato. «Purtroppo, della pittura romana, della scuola romana di quel periodo si conosce pochissimo» spiega Strinati. «Eppure dal 1250 al 1300 Roma assiste ad una stagione che deve esser stata straordinaria. Basta pensare che nell’arco di un ventennio vengono rifatte le decorazioni di tutte e quattro le basiliche patriarcali e di tutte le più importanti chiese di Roma. Cantieri enormi in cui lavoravano decine di maestranze, delle quali non sappiamo nulla o quasi. Di alcuni pittori come Filippo Rusuti, Jacopo Torriti, Pietro Cavallini non si conoscono che poche opere. Perché se della pittura di Giotto moltissimo si è conservato, anche se si tratta di opere posteriori alla leggenda francescana, della pittura romana di fine Duecento, contemporanea al ciclo francescano, non è rimasto quasi nulla». Secoli di renovationes Urbis uniti a qualche disastro, come l’incendio che ha demolito la Basilica di San Paolo, hanno infatti provocato la distruzione di chilometri quadrati di mosaici e affreschi, lo smembramento di centinaia di monumenti e la manomissione fino alla cancellazione di decine e decine di architetture. Vale a dire la sostanziale cancellazione dell’immenso cantiere di architettura, scultura e pittura che fu Roma alla fine del Duecento, alla vigilia del primo Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII, dove vengono a lavorare decine e decine di artisti e dove convergono anche noti maestri toscani tra cui Cimabue, Arnolfo di Cambio e Giotto. Da qui soprattutto l’estrema importanza e rarità di questo ritrovamento. Potranno, dunque, questi affreschi, che rimettono con forza l’accento sulla questione romana, far luce su quella grande stagione pittorica che si è espressa a Roma alla fine del Duecento? Potranno far chiarezza su quegli stretti legami che uniscono Roma ad Assisi? E non sarà proprio l’Aracoeli un laboratorio avanguardistico dove si incontrano maestranze toscane e romane sviluppando quelle soluzioni che si ritroveranno ad Assisi? E non sarà Cavallini il maestro di Giotto, il pittore romano dal quale Giotto impara a dipingere figure di straordinario realismo? Tutte domande che forse potranno trovare una risposta anche dalla definitiva riscoperta del ciclo completo degli affreschi dell’Aracoeli, augurando che non valga, almeno in questo caso, quanto diceva Socrate: «I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi, mantengono un maestoso silenzio». "La chiesa di Santa Cecilia in Trastèvere" . Difficilmente si potrebbero trovare chiese medievali in Roma più rilevanti per capolavori d'arte di questa bellissima chiesa trasteverina. La vicenda del martirio di Cecilia, nobile romana, è notissima, e rammemorata dalla scultura di Stefano Maderno sotto l'altar maggiore di cui diremo oltre. La basilica sorge sulle fondamenta di una casa romana, tuttora visibile, che la tradizione vuole essere quella della famiglia di Cecilia, e che scavi recentissimi hanno rivelato essere stata prestissimo adibita al culto cristiano, con tracce di un raro fonte battesimale, il che testimonia dell'importanza del luogo di culto cristiano fin dalla tarda antichità, luogo di culto la cui prima menzione risale peraltro al 499. La costruzione della basilica ancor oggi visibile è opera di Pasquale I (817-824), che la fece splendidamente decorare, mentre il portico, il campanile e una parte del convento sono opera di Pasquale II (1099-1118). Una seconda, ricca fase decorativa dell'edificio si ebbe intorno al 1290, con gli affreschi di Pietro Cavallini e il ciborio di Arnolfo di Cambio. Ulteriori restauri si ebbero nel quattrocento e nel cinquecento, oltre al ritrovamento sensazionale all'epoca, del corpo della santa nel 1599, su cui ci soffermeremo più avanti. Una forte modifica dell'interno fu effettuata nel 1724, ma soprattutto lasciò il segno l'intervento del 1823, quando le colonne delle navate, per motivi statici, furono racchiuse in pilastri in muratura, alterandogli equilibri spaziali dell'interno. A cavallo fra l'ottocento e il novecento scavi e restauri hanno rimesso in luce la casa romana sottostante e gli affreschi del Cavallini. Sulla piazza di Santa Cecilia si affaccia il monumentale ingresso settecentesco al quadriportico, dubbiosamente attribuito a Ferdinando Fuga; il quadriportico originario di accesso alla chiesa è in realtà oggi un bel giardino al centro del quale è stato collocato un grande vaso romano. Gli edifici sui due lati del giardino sono occupati a destra da un monastero di suore francescane, a sinistra da un monastero di benedettine, alle quali è affidata la basilica di Santa Cecilia. Il portico della chiesa conserva sull'architrave un fregio musivo del XII secolo riccamente policromo, dove sono raffigurate tra l'altro Santa Cecilia e altri santi e sante. Sotto il portico molti monumenti funebri, tra cui spicca quello del cardinale Paolo Emilio Sfondrati (m. 1618), opera di Girolamo Rainaldi, le cui sculture furono eseguite su disegno di Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo. L'interno è a tre navate di cui quella centrale particolarmente spaziosa e luminosa, separata da quelle laterali dai pilastri che, come detto, racchiudono le colonne antiche, intervento ottocentesco che per altro si intona con la sistemazione settecentesca, sopratutto della volta, al cui centro è l'affresco con l'Incoronazione di Santa Cecilia, eseguito da Sebastiano Conca nel 1725. La navata è separata dal presbiterio da una splendida balaustra composta da marmi pregiati, del 1600 circa. Oltre questa, il celeberrimo ciborio, capolavoro d'arte gotica, opera di Arnolfo di Cambio, su cui è stata ritrovata la firma dell'artista e la data del 1293. Sotto l'altare, il sepolcro di Santa Cecilia con la statua della santa, opera di Stefano Maderno, che ne ritrasse il corpo così come era stato ritrovato al momento degli scavi effettuati nel 1599, fatto che produsse un enorme clamore. La santa, con il profondo taglio sul collo eseguito dal carnefice e al quale sopravvisse tre giorni, accenna con le dita delle mani al mistero della Trinità. Nel catino absidale è conservato il mosaico dell'epoca di Pasquale I raffigurante il Redentore benedicente con, a sinistra, i Santissimi Paolo e Cecilia, e Pasquale I (che sulla testa porta il nimbo quadrato, a significare che era in vita al momento dell'esecuzione del mosaico, e reca nelle mani il modellino della chiesa in offerta); a destra i Santissimi Pietro, Valeriano e Agata. La basilica, nelle navate laterali e nelle cappelle, è ricca di numerose altre opere d'arte, tra cui, a destra, nell'ambiente del calidarium, dove Santa Cecilia, secondo la tradizione fu esposta ai vapori bollenti prima della decollazione, due opere di Guido Reni, i Santissimi Valeriano e Cecilia, e, sull'altare, la Decollazione della santa; sempre a destra, la quattrocentesca cappella dei Ponziani, la settecentesca cappella delle reliquie, opera del Vanvitelli, e una cappella col monumento funebre del cardinale Rampolla del Tìndaro, scenografica composizione (1929). Dalla navata sinistra si può accedere al chiostro romanico (XII secolo) del convento, e salire al coro delle Monache, che corrisponde al sottostante vestibolo interno, dove nell'anno 1900 è stato riscoperto il Giudizio universale di Pietro Cavallini, massimo capolavoro della pittura medievale romana, eseguito intorno al 1293, e che si situa nel momento di passaggio tra la grande tradizione bizantina e la nascita della pittura "moderna" ad opera di Giotto. L'affresco in origine si estendeva su tutta la controfacciata della chiesa insieme ad altri sulle pareti della navata centrale, tra le finestre e le arcate del colonnato,ora coperti dai rifacimenti settecenteschi e di cui si può vedere l'inizio del coro. Negli anni in cui fu ritrovato il Giudizio universale, fu scavato l'ampio complesso archeologico sottostante, al quale si accede sempre dalla navata sinistra, un insieme di costruzioni che vanno dalla tarda repubblica al IV secolo Dopo Cristo, in cui rimangono tra l'altro dei pavimenti in mosaico bianco e nero. Dagli ambienti romani si può vedere la singolare cripta neobizantina fatta costruire dal cardinale Rampolla del Tìndaro, su progetto dell'architetto Giovan Battista Giovenale (1901), dove, da una finestrella sopra l'altare, sono visibili i sarcòfaghi che racchiudono i corpi di Santa Cecilia e degli altri santi qui seppelliti. L'antistante piazza di Santa Cecilia conserva alcune case medievali, peraltro assai pesantemente restaurate nel nostro secolo. "San Paolo fuori le Mura": 1277-1285 Purtroppo nulla è sopravvissuto della prima attività del pittore, che intervenne nella decorazione ad affresco di San Paolo fuori le Mura, perduta in seguito all'incendio che nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823 danneggiò la basilica in modo gravissimo. Di tale decorazione rimangono soltanto copie del secolo XVII, tra cui le più importanti sono quelle eseguite intorno al 1634 per conto del cardinal Francesco Barberini, poi raccolte nel manoscritto Barberino Latino, 4406 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Gli affreschi, per i quali si presuppongono due fasi (una al 1277-1279, l'altra intorno al 1285), erano disposti lungo la navata centrale su due registri sovrapposti di ventidue riquadri ciascuno. Sulla parete sinistra erano rappresentate scene tratte dagli Atti degli Apostoli, con particolare riguardo a episodi della vita di San Paolo; sulla parete destra scene tratte dall'Antico Testamento; qui il pittore seguì le tracce di un ciclo preesistente e risalente forse alla metà del V secolo (tanto che l'intervento di Cavallini è stato definito più un 'restauro' che un'opera originale), di cui anzi conservò un intero riquadro, riconoscendo pertanto, con coscienza critica desueta a quei tempi, un singolare valore a quanto rimaneva dell'antica pittura. Sotto i riquadri si stendeva una serie di ritratti papali entro clipei, mentre in alto, tra le finestre, erano affrescate grandi figure di apostoli e profeti. Unici frammenti superstiti dell'originale impianto decorativo sono alcuni clipei con i busti di pontefici, oggi staccati e conservati nella Pinacoteca della basilica ostiense. "Santa Maria in Trastevere". Un'opera di sicura mano dell'artista è costituita dai sei episodi a mosaico relativi alla vita della Vergine posti sotto il catino absidale di Santa Maria in Trastevere, nonché dallo scomparto votivo con la Madonna tra i Santissimi Paolo e Pietro ai cui piedi è il committente, il cardinale Bertoldo Stefaneschi, domicellus alla corte pontificia. Nello scomparto dedicatorio, ancora nel secolo scorso, era visibile una iscrizione con il nome dell'artista e la data, così da rendere certa l'attribuzione al Cavallini. Il ciclo inizia da sinistra sulla parete accanto all'abside con la scena della Natività della Vergine, per proseguire nel catino con l'Annunciazione, la Nascita di Gesù, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio,la Dormitio Virginis. Ogni scena è commentata da una iscrizione metrica. Tutta la decorazione trasteverina poggia sull'ordine e sulla misura, sulla semplicità monumentale della composizione e sulla sua verosimiglianza; la costruzione dell'ambientazione abbandona i modelli bizantini e si trasforma in qualcosa di reale, fatto di architetture e di spazi vissuti e credibili. La tecnica del mosaico tende ad adeguarsi a quella dell'affresco: usando filari di tessere minute, Cavallini mira a ottenere la stessa fluidità della pennellata, modulando i colori in una serie di tenuissimi trapassi che vedono contrapporsi alle note chiare nelle emergenze plastiche quelle scure nelle profondità delle pieghe; si tratta di un evidente richiamo alla grande arte paleocristiana in cui la ricchezza del panneggio era il mezzo per rendere efficacemente la presenza corporea. Sulla questione della cronologia dell'opera, si è sempre fatto riferimento ad una data letta nel secolo scorso dal Barbet de Jouy (1251) e corretta dal De Rossi (1291) sul pannello votivo che fu eseguito naturalmente alla fine del lavoro. Ma anche la datazione al 1291 non trova la critica completamente concorde ; recentemente infatti è stata espressa l'opinione che i mosaici di Santa Maria in Trastevere debbano essere spostati più avanti, dopo l'esecuzione degli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere, vale a dire tra il 1293 e il 1300. Va infine detto che a Cavallini è stato anche attribuito (ma senza fondamento) un 'restauro' sul volto della Madonna Regina nel mosaico della calotta absidale del secolo XII.
"San Pietro in Vaticano". Dice Vasari: "Costui, dunque, essendo discepolo di Giotto, et avendo con esso lavorato nella nave di San Pietro fu il primo che dopo li illuminasse quest’arte e che cominciasse a mostrar di non essere stato indegno discepolo di tanto maestro Dice Ghiberti: e vedesi dalla parte dentro sopra le porte 4 evangelisti di sua mano, in santo Pietro di Roma di grandissima forma ..e due figure molto eccellentemente fatte e grandissimo rilievo, ma tiene un poco della maniera antica cioè greca". Della vecchia basilica nulla è rimasto tranne alcuni frammenti di mosaico che rappresentano due angeli provenienti forse dalla navicella della basilica che Giotto, secondo il Vasari, avrebbe dovuto eseguire, "ma la fattura è così Cavalliniana che è comprensibile l’idea che Giotto si sia servito, non certamente di Cavallini assente da Roma, ma forse dei suoi allievi ai quali affida le figure di contorno".

 

 

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